La vita che desideri – Francesco Memo e Barbara Borlini

Titolo: La vita che desideri
Autori: Francesco Memo e Barbara Borlini
Casa editrice: Tunué
Anno di pubblicazione: 2019
Volume unico.

È stato pubblicato da qualche mese, ma ho impiegato un po’ di tempo a metabolizzarlo. Si tratta di un’opera imponente, bellissima e densa, stratificata tavola dopo tavola, vignetta su vignetta.
Il formato della tavola è orizzontale, ricorda quello dell’ultima edizione dell’Eternauta.
La lettura mi ha accompagnato durante un viaggio Napoli-Bologna in cui come al solito ho dato spettacolo, nel senso che ogni tanto mi scappava una lacrima, chissà cos’hanno pensato i passeggeri che hanno avuto la sventura di condividere il viaggio con la sottoscritta.
Ma andiamo a incominciare, ché perder tempo a chi più sa più spiace.

La vita che desideri si compone di tre atti, in cui opera – in varie fasi della sua esistenza – un personaggio, Giulio Corsini, ispirato al nonno della coautrice Barbara Borlini.

A seguire, il prologo e gli incipit degli episodi.

Tutto comincia nel 1914, a Vienna, all’indomani dell’assassinio dell’arciduca Franz Ferdinand. Il giovane Giulio Corsini, che lavora a Vienna come cuoco, resta coinvolto suo malgrado in un omicidio, in cui involontariamente, per soccorrere un estraneo in difficoltà, finisce con l’aiutarlo a uccidere il suo avversario. Rilasciato dai gendarmi, nel tentativo di saperne di più sull’omicida, finisce in un Kabarett, l’Eule. Qui vede l’omicida esibirsi nei panni della cantante Barbette.
Scoppia la Prima guerra mondiale.

L’uomo medio
1916, Altopiano del Carso. Giulio Corsini è soldato di trincea. Un giorno il suo battaglione cattura un soldato austriaco a nome Florian. Questi non è che Barbette, alias l’omicida aiutato due anni prima da Giulio, che ora, essendo l’unico a sapere il tedesco, per la seconda volta lo aiuta a sopravvivere, traducendo le sue frasi. In altre parole, gli fa da angelo protettore… Logico che i due si sentano legati l’uno all’altro, quasi predestinati, e l’esperienza cruda della guerra e della morte imminente li legherà per sempre… o forse no?

Mio padre
1935, Lago Maggiore. Questo è l’episodio che mi è piaciuto di più. Apparentemente non ha a che fare col precedente, perché muove dall’esperienza dell’avanguardista Giorgio Crippa e del fratello balilla, Guerino, che si uniscono in campeggio alla gioventù fascista. Qui interagiscono con gli altri giovani fanatici del Duce ma non sono visti di buon occhio, perché il padre di Giorgio e Guerino è un noto comunista, e in quanto comunista ha perso il lavoro. La madre dunque spinge Giorgio ad avviarsi alla carriera alberghiera, e l’occasione gli viene fornita da un noto albergatore: Giulio Corsini. Questi sarà una presenza fondamentale per il giovane Giorgio, ignaro di poesia se non di quella filtrata dal regime. Galeotto sarà Omero e l’attrazione irresistibile della bellezza dell’Iliade

Pietà l’è morta
1943, Salonicco. Anche in quest’episodio inizialmente sembra che gli avvenimenti precedenti non siano collegati agli eventi qui narrati. Da Salonicco una famiglia ebrea per fuggire la violenza antisemita si imbarca per l’Italia, dove saranno ospiti graditi nell’albergo di Giulio Corsini. Purtroppo i tedeschi irrompono anche in questo luogo che sembrava sicuro e i genitori sono entrambi catturati. Si salva solo la bambina, la muta Becki, grazie a Giulio che la nasconde fino a quando non riesce ad affidarla a un partigiano. Quest’ultimo altri non è che Giorgio Crippa…

Qualche considerazione
Sarò breve: ho avuto un bisnonno prigioniero in Etiopia, che è tornato vivo a casa perché sapeva fare il pane. I miei nonni hanno partecipato alle guerre mondiali e di storie me ne hanno raccontate. Ecco perché considero La vita che desideri, sostanzialmente, un’opera di verità. Non perché i protagonisti siano esistiti realmente: essi possono essere fittizi, ma senz’altro vero è il sangue versato e vera la dignità calpestata e morta la pietà e risorta la speranza, con la vita che, nonostante tutto il male che è stato, trova la forza di sorridere, anche da muta.

Difficile descrivere la bellezza dei disegni, tuttavia a me sembra che l’espressività dei volti sia la testata d’angolo su cui poggia la forza icastica della narrazione. Mi è sembrato di sentire il sapore del sigaro di Giorgio Crippa e lo champagne dell’albergo di Giulio Corsini e ho udito la dolcezza triste delle canzoni di Barbette. Sono stata in trincea, poi tra i balilla e gli avanguardisti, poi tra i partigiani sospesi tra ideale e precipizio.

Il rigore della ricerca storica degli autori è evidente, come notevole è la volontà di mantenere un ritmo serrato, oserei dire spietato, ma sono i dialoghi tra i personaggi quelli che mi hanno rapito, più che la retorica ricostruita dei discorsi o le canzoni in tedesco o la tensione della catastrofe imminente. Perché è difficile dare voce alla verità della sostanza umana.

Come difficile è trovare le parole per esprimere l’inesprimibile, la bellezza che fiorisce in mezzo alla tragedia, quasi l’Allegria di naufragi di ungarettiana memoria. Resta solo la grande umanità che trapela dalle pagine, pagine vergate da colori primari (giallo per il primo episodio, rosso per il secondo e verde per l’ultimo), come primarie sono le avventure di cui si fa la vita. La scoperta, l’amore, la morte. La morte, che è verde perché essa è la vita di chi viene dopo.

Si sa, siamo nani sulle spalle dei giganti.

I miei nonni avevano spalle forti e io sono loro grata, così come sono grata a Barbara Borlini e Francesco Memo per questo imponente, bellissimo, struggente fumetto (o graphic novel, che dir si voglia).

Non privatevene. È la nostra storia, la nostra memoria, la sostanza di cui siamo fatti.

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